Il parto è tortura?

La morte di un neonato, tre giorni dopo la nascita, a quanto pare soffocato accidentalmente dalla madre che lo aveva accanto nel letto per allattarlo, ha scatenato un’infinità di polemiche, molte al limite dell’assurdo.
Il tema dominante negli articoli – guarda caso tutti a firma femminile – è stato quello della notevole stanchezza che si abbatte sulla puerpera nel post-partum, non adeguatamente compresa, sistematicamente ignorata e, quel che è peggio, in genere non alleviata dal personale delle maternità.
Non sto qui a difendere l’operato delle addette all’assistenza, ostetriche e infermiere, che in certi casi – in verità piuttosto rari – può essere censurabile, ma vorrei ricordare quanto il personale ospedaliero da lungo tempo sia a sua volta stressato oltre misura dalle arcinote carenze di organico presenti un po’ dappertutto.

Quel che più colpisce, però, è soprattutto il vissuto drammatico, per alcune di esse personale, dell’esperienza parto, quello spontaneo ovvio, che invece dovrebbe essere, da definizione comune, un “lieto evento” e come tale meritevole di perenne ricordo tra i momenti più belli della propria vita.
Ansia, dolore, sofferenza, pianto sono le parole più ricorrenti in queste narrazioni. Ci sarebbe molto da controbattere, ma non ho voglia di fare polemiche. Gradirei però che, partendo da poche esperienze tragiche – che non nego possano essere accadute – si arrivi a concludere che il parto sia una specie di tortura gestita da sadici.
In tal modo si finisce col dare maggior forza alla già pesante spirale di violenza contro i sanitari, e soprattutto si carica di paure chi si avvia ad affrontare il momento nascita, cosa ancor più grave perché va ad annullare tutto il lavoro che abbiamo fatto per anni allo scopo di sdrammatizzare quanto si tramandava.
L’approccio psicologico ci dice che in ospedale prevalgono il senso di abbandono e la solitudine, negli ultimi anni acuite con le limitazioni imposte dalla pandemia. Esse derivano dall’assenza di quella attenzione e di quei consigli che le “anziane” di famiglia fornivano nel
parto domiciliare. Questo, insieme a qualche parola di troppo dei sanitari, dà quel senso di inadeguatezza che provano tante.
Molte lamentano la lontananza del partner, che non è il pure importante aiuto materiale quanto la mancanza di quelle cure premurose e affettuose caratteristiche dell’atteggiamento materno (maternage) che ogni uomo dovrebbe avere verso la propria compagna che poi lo eserciterà col loro figlio o figlia.
Come si vede un problema piuttosto complesso, che certo non può trovare soluzione in un taglio cesareo diffuso, quando già persiste elevato, sebbene – e non sarà un caso – poco tempo prima su un periodico era apparso un sottotitolo significativo “La scelta spetta alle donne o al dottore?”, cosa già stigmatizzata da me, contrario al cesareo “on demand”, allorché uscirono le note linee guida.

Prima di concludere, una personalissima osservazione. Con la denatalità attuale la maggior parte delle donne non fa più di un figlio, che nasce in un’alta percentuale con taglio cesareo. Eppure le lamentele che si sentono non sono poche. Domanda stupida: come hanno fatto le nostre mamme, e ancor più le nostre nonne, con tanti figli partoriti senza gli innegabili progressi di oggi?


Pubblicato il Marzo 15, 2023